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N. 147 - Marzo 2020 (CLXXVIII)

L’ABRUZZO E LA PESTE DEL 1656
differenze e analogie

di Filiberto Ciaglia

 

Scrivere un pezzo sulla peste del 1656 in questo periodo può, in qualche modo, renderci coscienti delle analogie indubbie che vi furono tra il nostro tempo e quell’epidemia, ferme restando le differenze sostanziali che intercorrono tra quei tragici anni della storia del Regno di Napoli e la presente minaccia del Coronavirus, che pur essendo la più grave emergenza sanitaria dal secondo dopoguerra ha mostrato al mondo la forza del modello di contenimento attuato dallo stato italiano e la responsabilità dei suoi cittadini nel rispettare il fresco dettato normativo in materia.


La peste del 1656 arrivò dal mare, varcando il Tirreno su una nave mercantile proveniente dalla Sardegna. Sull’isola era arrivata, manco a dirlo, sempre via mare, dai porti della Catalogna che a loro volta l’avevano importata dall’Algeria, giunta su un bastimento carico di cuoi e pelli.

 

L’arrivo della malattia nella Napoli di metà ’600 fu accompagnato da un iniziale scetticismo, una fase di sottovalutazione del pericolo che è tipica di molte epidemie nella storia moderna e contemporanea. Certo è che i mezzi del tempo non erano gli stessi, tuttavia la predisposizione di un buon cordone sanitario per tentare di circoscrivere la peste fu messa in atto, ma era già tardi.

 

I primi mesi del 1656 le autorità spagnole notarono sospette “morti subitanee” quando operarono la numerazione dei fuochi nelle regioni del regno, ovvero il conto dei nuclei familiari delle singole comunità. Il virus era già dilagato nel resto della Campania e nelle regioni limitrofe, a Roma le fonti parlarono di un primo caso relativo a un pescatore napoletano giunto in città.

 

La diffusione continuò anche dopo il tentativo di circoscrivere e isolare la zona a più alto livello di contagio attorno alla capitale del regno, poiché molti individui scapparono per mettersi al riparo nelle campagne e talvolta riuscirono a fuggire con la complicità delle guardie preposte nelle zone di confine.


In Abruzzo l’epidemia dilagò nella stragrande maggioranza dei comuni, tanto nell’Abruzzo Ulteriore appenninico quanto nell’Abruzzo Citeriore costiero, ove fece eccezione la zona del vastese nonostante fosse notevole il flusso di commerci con la Campania.

 

Michele Florio, scrittore del tempo, testimoniò che le città di Chieti, Atri, Lanciano, Teramo, Aquila, Celano e i diversi loro castelli furono alcune tra le zone più colpite dalla diffusione della peste. Nuovi dati sono riemersi in un approfondito lavoro d’Archivio svolto da Salvatore De Renzi nel 1867, da dove emerge che Loreto e Roseto nella zona costiera e Forlì del Sannio, Caporciano e Collarmele nella parte interna furono interdette nelle libere pratiche commerciali con i paesi circostanti.

 

Nella Miscellanea Hieronymi Nicolini, opera rarissima che lo stesso De Renzi approfondì in alcuni contenuti per via indiretta, c’era scritto che nella città di Chieti morirono circa quattromila persone e fu difficile gestire il resto della comunità impedendo che il numero degli appestati non aumentasse: si punivano “coloro che si rinvenivano camminare per la città senza lume, dopo il terzo suono della campana”.

 

Nella Marsica, ove Collarmele spicca tra le località isolate dalla Prammatica XX nella libera pratica, furono colpiti tutti i paesi sulle rive del lago e le valli circostanti. A Carsoli, l’8 settembre un cittadino chiese “di essere confessato avendo paura di morire a causa del contaggio che ha fatta si grande strage. L’atto è fatto dal prete stesso in quanto il notaro non è stato chiamato in quanto a Monte sabinese non ce ne è, e nemmeno nella Baronia di Carsoli e perchè è vietato il commercio per male contagioso”.

A Pereto l’epidemia si arrestò nel mese di settembre, e la comunità accese dei fuochi nell’abitato per bruciare le cose infette, come panni o materassi, e le fosse sepolcrali vennero coperte per paura che si diffondesse una nuova infezione.

 

Sul finire del 1657,a Penne ancora si registravano vittime per il contagio nel periodo natalizio e le operazioni di “spurga” della città furono avviate nei primi mesi dell’anno successivo. Stesso discorso valse per Loreto.

 

La situazione in Abruzzo tornò molto lentamente alla normalità, gli ultimi casi si registrarono nel 1658. In quell’anno cessò l’isolamento delle località più intensamente colpite. La mortalità nella regione si attestò intorno al 32%, mentre le stime riguardanti il totale delle vittime nel Regno di Napoli risultano ancora oggi discordanti oscillando tra le 400.000 e le 900.000 ed escludendo la capitale del regno.

 

Se si confronta la misurazione dei fuochi del 1648 con quella del 1660, si passò dai 500.203 ai 413.034. Per quel che riguarda l’Abruzzo, la misurazione riscontrò una diminuzione di 4694 fuochi nell’Abruzzo Citeriore (dai 27.739 ai 23.045, -16,9%) e una diminuzione di 5878 nell’Ulteriore (dai 44.494 ai 39.196, -13%). All’Aquila si passò dai 1500 ai 1162 fuochi, con un numero di vittime che si aggirò attorno ai 2500. In tutta la diocesi dei marsi i morti furono invece 4.080.


Gli ultimi studi sulla peste del 1656 fanno emergere un elemento nuovo per quel che riguarda la durata dell’epidemia e la sua evoluzione: pur essendo nota come peste del 1656-1657, la durata si prolungò al 1658 inoltrato con la riaccensione di alcuni focolai come quello che partì da Rosello, comune abruzzese al confine con il Molise, e si diffuse nuovamente in parte dell’Abruzzo Citeriore.

 

L’isolamento del regno, di fatto, durò un biennio. Tuttavia le pestilenze del seicento furono le ultime che sconvolsero con carattere pandemico il continente europeo, quelle dei secoli successive non presentarono mai la stessa capillare diffusione.


Nonostante i secoli che ci separano da quella, di gran lunga più grave, epidemia che sconvolse il meridione italiano, esistono degli errori comportamentali per certi versi comprensibili che si ripetono nel corso dei tempi: dapprima la sottovalutazione della minaccia, poi le fughe e gli sfondamenti dei cordoni sanitari creati per il contenimento e la noncuranza di alcuni cittadini nei confronti delle disposizioni normative, che raccomandavano di non uscire dalle proprie abitazioni.



 

 

 

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