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N. 40 - Aprile 2011 (LXXI)

la II guerra mondiale nei lager
fine della ragione & sopravvivenza

di Giulia Gabriele

 

«A chi appartieni, soldato? A Badoglio o Mussolini?» Probabilmente iniziò così per molti militari italiani, dopo l’8 settembre 1943, la strada che avrebbe potuto portare loro verso la morte certa, il collaborazionismo con i nazisti o la prigionia nei campi di concentramento.

 

Il generale Badoglio, infatti, in quella sera settembrina annunciò che l’Italia infrangeva l’alleanza con la Germania di Hitler per schierarsi con le democrazie occidentali. Per il nostro Paese si profilavano altri due lunghi anni divisi tra battaglie per la liberazione dai tedeschi, stenti e speranze per un futuro di pace. E poi ci fu chi, come mio zio Santino, quegli anni li passò in un campo di concentramento.

«I lampioni si stanno spegnendo su tutta l’Europa», disse Edward Gray, ministro degli Esteri della Gran Bretagna, mentre osservava le luci di Whitehall la notte in cui il suo paese entrò in guerra contro la Germania nel 1914. «Nel corso della nostra vita non le vedremo più accese» (E. J. Hobsbawm, Il secolo breve).


La Prima Guerra Mondiale non fu certo la fine dell’umanità anche se in alcuni momenti – come la distruzione per mezzo della bomba atomica delle due città giapponesi – l’estinzione di gran parte del genere umano non sembrò lontana. Possiamo sicuramente dire, però, che il 1914 inaugurò l’età dei massacri che ebbe il suo culmine negli anni della Seconda Guerra Mondiale, conflitto provocato sicuramente anche dall’incapacità delle democrazie di rimanere saldamente unite a favore della pace internazionale.

In questo quadro di debolezza da parte di quelle che erano considerate le roccaforti della libertà, avanzò il programma politico di Benito Mussolini e il suo successivo governo. Già gli anni appena posteriori alla presa di potere del Duce furono caratterizzati non solo da azioni squadriste particolarmente violente nei confronti di chi non simpatizzava per il partito, ma anche da leggi molto rigide e repressive. Fu, però, con la promulgazione delle leggi razziali nel 1938 che la “morte” dei diritti civili dell’individuo vide il suo culmine più terribile.

 

Con la deportazione di milioni di uomini tra ebrei, slavi e prigionieri di guerra nei campi di concentramento o di sterminio, credo si possa registrare il collasso di quei valori e di quelle istituzioni che la Rivoluzione francese aveva diffuso e che la civiltà liberale aveva cercato di preservare fino ad allora. Inoltre a salvaguardia dei valori di libertà, uguaglianza e ragione ormai erano rimasti ben pochi baluardi: i soli paesi europei in cui le istituzioni politiche democratiche abbiano funzionato senza interruzione furono la Gran Bretagna, la Finlandia, lo Stato libero d’Irlanda, la Svezia e la Svizzera (su 65).

 

È chiaro quindi come l’Europa (e anche l’America, in cui la situazione non era certo più stabile) non fosse pronta ad affrontare l’avanzata nazi-fascista, che era forte del consenso popolare. Tuttavia fu proprio il razzismo spietato e crudele sostenuto dal sistema hitleriano che fece “smuovere” le coscienze, soprattutto intellettuali, nei paesi liberali europei, anche se in pochi riuscirono a capire veramente l’orrore che si stava consumando nei campi di concentramento.

Mio zio fu fatto prigioniero dai tedeschi in Grecia il 9 settembre 1943 e deportato a Dachau, in Germania, dove rimase fino al 1° settembre 1945. Qui ha dovuto sopportare i lavori forzati per le opere pubbliche, gli stenti e i maltrattamenti: più che vivere i prigionieri sopravvivevano, o almeno ci provavano. Ogni tipo di angheria era rivolta loro: quando lavoravano nella ferrovia e dovevano smettere per far passare il treno, dei soldati tedeschi si divertivano a spingere sulle rotaie alcuni prigionieri, consapevoli che per loro sarebbe stata la morte certa, data la debolezza fisica; oppure dopo il pranzo buttavano per terra dei pezzi di pane per vederli gettarsi sul cibo e litigarselo come fossero animali. “Ormai la ragione si era spenta… rimaneva solo l’istinto di sopravvivenza”, così raccontava mio zio.


Quando finalmente i lager vennero aperti, dopo la liberazione da parte degli Alleati nel 1945, mio padre poté finalmente riabbracciare suo fratello, ridotto allo spettro di se stesso: pesava 47 chili, ma almeno era lì, nella sua terra e poteva ricominciare.

Personalmente individuo nei racconti di mio padre e nell’immagine di quest’uomo gentile e forte, ridotto ad ombra ferina la più grave conseguenza dell’attesa da parte delle democrazie ad intervenire contro la follia hitleriana e della loro incapacità a mantenere un clima di coesione all’interno dell’Europa.

La Seconda Guerra Mondiale ha visto l’estinguersi del fascismo e del nazismo grazie a un generale sentimento di ricostruzione sotto la bandiera della pace e della libertà, comune a tutti i popoli (anche se nel ‘47 comincerà il periodo della cosiddetta Guerra Fredda).

Ora, nel XXI secolo, ci troviamo in un punto di crisi storica, «se cerchiamo di costruire il terzo millennio su questa base [cioè sul prolungamento del passato o del presente], falliremo. E il prezzo del fallimento, vale a dire l’alternativa a una società mutata, è il buio» (E. J. Hobsbawm, Il secolo breve).

 

Forse anche più scuro di quello che calò su Whitehall la notte in cui la Gran Bretagna entrò in guerra contro la Germania nel 1914 e di quello che permeava l’aria dopo che le luci venivano spente nei campi di concentramento.

 

 

 

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