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N. 10 - Ottobre 2008 (XLI)

a est del danubio

capitolo xIV

di Leila Tavi

 

Maggio 2003.

Per lo Stato italiano sono nata come “figlia illegittima”, fuori dal matrimonio e prima della riforma del diritto di famiglia. Ai miei genitori non ha mai fatto differenza, hanno sempre considerato il matrimonio come un affare prettamente burocratico; nel loro ambiente di lavoro le separazioni, i conviventi more uxorio e i matrimonio a Las Vegas di gente già sposata erano all’ordine del giorno già prima del referendum abrogativo del 1970, loro stessi facevano parte di questa categoria.

Per tutelarmi decisero di iscrivermi in una scuola cattolica privata dove, se paghi la retta regolarmente, nessuno va a informarsi se sei un bravo praticante o se tuoi genitori si sono sposati in chiesa.

Nonostante questa premessa, ricordo il giorno del mio matrimonio come uno dei più divertenti della mia vita.

Lo sapevano tutti che ci sposavamo per via dei documenti di Ivan, a me non faceva né caldo e né freddo; presto avrei partorito il mio primo figlio e questo mi bastava per essere euforica.

Qualche giorno prima del matrimonio chiamò l’anagrafe di Bratislava da noi a Vienna per congratularsi con noi: il nostro era il primo matrimonio nella storia tra un’italiana e uno slovacco, e già, perché di casi inversi che ne erano stati già tanti, sia prima che dopo la svolta del 1989.

Poi però avevano iniziato a chiamare tutti i miei amici; si era sparsa la voce che mi sarei sposata, dicevano che non ci si sposa a venti anni con un abito qualsiasi e in tutta fretta: c’era Luca Francesco che si era offerto di farmi da autista con la vecchia BMW del padre; Riccardo di Popoli che voleva fare il fotografo ufficiale; Fabiana che voleva disegnare l’abito, ma che non era riuscita mai a trovare il tempo pressata tra una sfilata e l’altra; mia zia Pierina che insisteva perché facessi il banchetto al QuoVadis, il ristorante dove lavorava; i miei cugini che, senza neanche avvertirmi, pensavano ai preparativi per la serenata.

Il risultato è stato una cosa esilarante, un specie di matrimonio romeno degli anni Ottanta sotto il regime. Qualcosa che era così lontano dal mio modo di essere, ma che avevo accettato di buon grado, almeno per passare in compagnia della mia famiglia e dei miei amici una giornata dopo la lunga permanenza all’estero.

La serenata a sorpresa era finita con una busta d’acqua in testa a Ivan da una non ben identificata finestra del mio palazzo. L’indomani non avevo voglia di alzarmi presto per fare inutili preparativi; non ero riuscita a dissuadere la mia relatrice a spostare l’appuntamento per la consegna dell’ultimo capitolo della tesi, e così mi era toccato scrivere la notte prima delle nozze.

Il vestito era venuto a mo’ di sottana trasparente stile impero con una palandrana pesante di pizzo, che sembrava piuttosto una camicia da notte d’altri tempi. Era meglio prenderla a ridere; con Fabiana impegnata da Rocco Barocco, a confezionarlo in meno di una settimana era stata la madre di un’amica, improvvisata sarta d’alta moda.

Le scarpe, l’unico vezzo concesso rispetto al budget minimale dei frettolosi preparativi di nozze, le avevo scelte in un negozio del Corso con mia cugina Paola, che al tempo lavorava da Raphael Salato, e pagate quasi più del vestito.

Le partecipazioni e le bomboniere le aveva ordinate Ivan a Bratislava, in lingua italiana, con testo a fronte slovacco, anche se gli invitati slovacchi non superavano la decina a fronte di un centinaio di italiani. La spesa complessiva non superava le cinquantamila lire. Mia madre diceva che le anfore decorate a mano scelte da Ivan erano come “sommerse” negli abissi della scatola, per quanto erano piccole.

Avevo sempre avuto un odio recondito per queste chincaglierie inutili che finiscono nei cassetti o nelle vetrine, oggetti di cattivo gusto, pacchiani, così ero contenta di queste anfore minuscole, non le avrebbe notate nessuno nelle case altrui, o sarebbero finite nelle case di bambola.

Un’altra cosa per cui non avevo simpatia erano le liste di nozze, mi sembravano una crudele costrizione, una noia mortale; ognuno poteva portare quello che voleva, a me dei regali non importava gran che, ma dei cucchiaini da gelato in argento, regalati dai nostri vicini per non farci portare peso inutile di ritorno a Vienna, non sapevo che farmene; i canoisti amici di Ivan avevano portato una bottiglia da venti litri di Borovička, con con su scritto Leila e Ivan 1997. Ancora la conservo, in attesa di un evento di una certa importanza, tanto da dover essere tutti ubriachi.

A due ore dall’arrivo dei parenti a casa ho deciso, sotto lo sguardo allibito di mia madre e mia sorella e senza nessun senso di colpa, di andare a farmi una nuotata. Un’ottima preparazione atletica per una notte da passare in piedi, a ballare su dodici centimetri di tacco, incurante della pancia e del fatto che sarei stata più alta di Ivan.

Al mio ritorno la casa era già piena di invitati e, naturalmente, mancavo solo io. Mi hanno accolto orde di parenti e io ho salutato tutti cordialmente in tuta da ginnastica, mentre mia madre era già preoccupata che saremmo arrivati tardi per la cerimonia.

In due minuti mi sono cambiata, niente trucco, una preparazione lampo, degna dei miei trascorsi di back stage.

Eravamo comunque in ritardo, Luca Francesco ha svicolato per la Colombo con il suo vecchio BMW nero seminando la metà dei miei parenti per la strada. Dovevamo raggiungere la chiesa sconsacrata di Caracalla, avevamo scelto l’ultimo appuntamento della serata, quello delle cinque, in un giorno di lunedì, soprattutto in previsione del mio ritardo cronico, ma non avevamo fatto i conti con il traffico romano.

Mi madre continuava a ripetere che sarei arrivata tardi anche alla mio funerale, io me ne rallegravo, Luca Francesco fischiettava un motivetto da discoteca Life in plastic, in onore mio e dello sposo che, a detta sua, sembravamo Barbie e Big Jim. In effetti, nelle foto, in smoking e vestito di pizzo bianco, sembriamo proprio due bambole della Mattel in scatola.

Ivan aveva fatto colpo con la sua bellezza su tutte le zie materne, che non facevano che sciorinare complimenti all’orecchio di mia madre.

Arrivati a destinazione, gli impiegati del comune ci hanno esortati a entrare, anche senza una testimone e senza gli anelli; avevano fretta di chiudere, così la cerimonia è durata complessivamente dieci minuti, traduzione in slovacco compresa.

Il culmine dell’ilarità è arrivato quando Ivan ha risposto alla domanda di rito, “vuole prendere questa donna in sposa”, dopo la traduzione consecutiva della signora slovacca la risposta di Ivan è stata “ano”, che in slovacco significa sì, ma per noi italiani significa tutt’altro; tutti hanno riso, tutti tranne la mia prozia Cencia, il cui volto si è rabbuiato.

Più tardi, al ristorante, la prozia con le lacrime agli occhi mi avrebbe chiesto: “Perché festeggiamo se non vi siete sposati?” e io lì a rassicurarla che anche se non era stata una vera chiesa e non si era visto il parroco eravamo sposi a tutti gli effetti, compreso quello della comunione dei beni, visto che non eravamo stati svegli a fare presente al funzionario comunale che desideravamo sposarci in regime di separazione dei beni. Ma la prozia non si sarebbe lasciata convincere: “L’ho sentito bene, ha detto no!”.

Fuori dalla chiesetta sconsacrata aspettava la metà dei parenti, quelli che Luca Francesco aveva abilmente seminato sulla Colombo, credevano che noi stessimo aspettando fuori l’inizio della cerimonia, invece con loro stupore si sono visti chiudere la porta della chiesa e le luci alle cinque e un quarto in punto.

Sposa bagnata, sposa fortunata! Quel lunedì di fine ottobre pioveva così tanto da far penetrare l’umidità tra la dura madre e l’aracnoide.

Al ristorante mia madre e mia sorella hanno dovuto affrontare un grave incidente diplomatico: l’interprete non voleva sedersi per nessun motivo con il gruppetto degli slovacchi, diceva che gli slovacchi, intesi come genere maschile, erano peggiori dei siciliani e che me ne sarei accorta presto. Aveva ragione!

Stavamo confinati in una saletta, assediati da gruppi di tedeschi in visita a Roma; a noi era riservato lo stesso intrattenimento: stornelli romani e chitarra. Più passava il tempo più pensavo che non poteva essere, che per il prossimo matrimonio avrei optato per un pic nic sul Danubio solo con lo sposo, invece di quel circo chiassoso.

Dopo un’ora il gruppo degli slovacchi era già ubriaco, abbiamo spaccato piatti in segno di buon augurio e fertilità, nella migliore tradizione slava, poi è arrivato il momento del lancio del bouquet e delle giarrettiera rossa, seguito da quello delle danze. Non so quanto ho ballato, so solo che Ivan mi ha portato in braccio all’auto e, incuranti del mio “stato”, siamo andati a passare la notte in sacco a pelo con gli altri.

Oggi siamo qui alla sezione civile del Tribunale di Roma in attesa dell’udienza di separazione, seduti pacificamente con il nostro avvocato in comune, Claudio, giovane quanto noi, alla sua prima udienza, emozionato più di noi.

Le sale d’attesa sono sporche, con i muri impregnati di fumo, retaggio di un tempo quando ancora era permesso fumare nei corridoi dei luoghi pubblici. Stanno sedute coppie tra la quarantina e la sessantina con i rispettivi avvocati, rigorosamente uno per parte. Le mogli non guardano i mariti, anzi gli altri parlano solo attraverso i loro legali, cercano, come in un bazar, di accordarsi all’ultimo minuto sulla divisione dei beni e sul mantenimento.

Noi siamo tranquilli, da spartirci abbiamo solo una figlia e un Pajero immatricolato nel 1990, inutile dire per cosa abbiamo optato. Ivan e io guardiamo con pietà quelle persone che sembrano impietrite, con l’animo inaridito, siamo contenti che a noi non sia successo, poggio la mia mano sulla sua gamba e gli strizzo l’occhio, infondo noi abbiamo ancora tutta la vita davanti. 

Luglio 2008.

In un’epoca di crisi della democrazia l’utilizzo delle armi non letali sembra essere ormai una pratica diffusa e accettata dalla società.

Per meglio dire, dovremmo parlare di armi “meno che letali”, le preferite dai governi durante le sommosse e le manifestazioni di piazza, quelle che hanno proiettili fatti di polvere di pepe rivestita di gomma, quelle che dalla giusta distanza possono farti schizzare un occhio fuori dall’orbita.

 

 

 

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