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attualità


N. 9 - Settembre 2008 (XL)

a est del danubio

capitolo xiii
di Leila Tavi

 

Vienna, giugno 2003.

 

Quando gli apache sono in volo il cielo è viola; quando gli apache sparano, sparano proiettili dello spessore e della lunghezza di un evidenziatore e pezzi di corpi umani sprizzano come schegge. Flugzeuge im Bauch.

 

I pezzi di cosa? chiede Denisa e penso a mia madre che mi guarderebbe con aria di rimprovero mentre spiego cosa è la guerra permanente, il permanent warfare, che è fatto per il “non petrolio”. Proč? Preč.

 

Proč se na benzínách vlastnĕ prodávaj cigarety

Když je tam prísnĕ zakázáno kouřit

 

canta Leoš Mareš, una specie di Tiziano Ferro ceco. Il ricordo di qualcuno che cercava di descrivermi il suo cielo viola, mentre mi portava in canna alla bicicletta per le strade di una di quelle città del Nord che adesso sono tanto in auge perché roccaforti dell’uomo padano.

 

Leila e Davide, si diceva, allora, all’inizio dell’Intifada, era di buon auspicio, ma non ha portato fortuna né a noi, né al Medio Oriente. Allora tutti ci auguravamo quella pace, se l’augurava il pizzettaio dal naso rotto, l’amico di Davide con il cane goloso d’uva, quello che regalava fiori di carta, il collezionista di cactus, fatto già alle dieci di mattina, il vecchio fricchettone americano che voleva convincermi a tutti i costi, appena ubriaco, delle mie origini russe.

 

Allora già facevo la pendolare tra Roma e Vienna, Padova mi sembrava una specie di compromesso tra l’impero decaduto e i mali del Sud. Scorazzavamo nella notte per la città in bicicletta e se ci fermava la volante di ronda era Tommaso il primo a prendere le mie difese, Davide se ne stava da una parte con gli occhi bassi, sembrava vergognarsi di quella che considerava per me un’umiliazione. A me era del tutto indifferente, solo che non ero abituata a portarmi dietro un documento, uscivo sempre senza niente in tasca. Guarda che anche se non ha i documenti lei è una apposto. Le pupille di notte le si dilatano naturalmente, hai visto che bella gatta? È romana, studia filologia germanica, che fai chiami la centrale?

 

Tommaso amava portare una barba incolta a vent’anni, non perdeva un’occasione per attaccare i miei sani principi, poi, alla fin fine, ci teneva alla mia amicizia anche se non ero del giro. Il corpo di Tommaso non è più stato ritrovato a largo di Capraia.

 

Le nostre serate nella villa ai Colli fuori Bologna, quando le pareti rimbombavano di giovinezza e Davide mi abbracciava sussurrandomi all’orecchio con quella voce dal marcato accento torinese.

 

Se la teoria dei quanti di Einstein è ancora attuale quanti giri intorno alla Terra dovrò fare per tornare a quella notte ai Colli? Non mi basterebbe una vita. Davide aveva paura quando vedeva il cielo viola.

 

Marconi sta alle armi subsoniche come i decibel di una discoteca stanno ai proiettili di questa guerra di folli. Bylo, nebylo.

 

L’Iraq di Madame Hussein? chiede Denisa una sera a cena a casa degli Olowu. In questo secolo i terroristi sono sulla bocca di tutti come i pirla negli anni Ottanta. Qui a Vienna si beve uno Schnaps chiamato Taliban, così per scaramanzia.

 

E gli zeloti chi erano? Terroristi? Mi chiedo come sarebbe avere a che fare quotidianamente con un intellettuale, doverselo guardare ogni mattina al risveglio, uno di quelli seri, non quei tipi pseudo-accademici assai diffusi. Uno che la sa lunga più di te, che magari ti farebbe fare la figura della stupida, a me che piace coltivarli ed educarli gli uomini. Sicuramente urterebbe la mia sensibilità di femminista antifemminista. Chodim spat.

 

Davanti alla mia finestra solo palazzi, sento nostalgia per i Castelli romani illuminati in lontananza da casa mia; sempre meglio che stare in una villa ai Parioli con vista su un’altra villa. Se non avessi Denisa che profuma di biscotto quando mi infilo nel letto, mi sentirei sola.

 

Non so se è più insensato essere agnostici fondamentalisti o religiosi miscredenti.

 

Ho sempre voluto mettere delle regole d’ingaggio anche in amore, mi è sempre capitato di fare la parte dell’amante anche quando ero una moglie. Proprio io che non sarei capace di rubare un uomo a un’altra neanche con tutte le attenuanti, neanche se mi venisse supplicato di farlo.

 

Vienna agosto 2007

 

Ogni volta che torniamo a Vienna ci piace visitare il Depot dove si trovano mobili di scena dei film di Marischka. È un museo un po’ nascosto, il biglietto costa poco, a Denisa piace farsi fotografare sulla sedia del regista come se fosse un dittatore davanti alla sua folla.

 

In questo ha ripreso da suo nonno materno Umberto, che non aveva molta simpatia per gli attori, diceva che non avrebbe augurato neanche al suo peggior nemico la disgrazia di avere una figlia attrice; i registi invece gli piacevano, anche se stava sempre lì a fare loro i conti in tasca, infondo era il suo lavoro.

 

Qualche volta mi scambiano per un’attrice di teatro, non so come si possa fare questo terribile errore, soprattutto a causa del mio timbro di voce, sempre lo stesso dall’età di quindici anni e dai toni altalenanti a seconda dell’umore, senza nessun tipo di controllo da parte mia.

 

Quando rispondo che scrivo noto una certa delusione sulle facce della gente e non capisco perché, forse la gente pensa che scrivere sia un lavoro così come è un lavoro l’essere felici.

 

Ad ogni modo io scrivo. Un giovane sceneggiatore mi chiede come si possa scrivere romanzi e contemporaneamente per il cinema, per lui tutto è prima immagine e poi parola. Per me invece la distinzione è netta e chiara: la sceneggiatura è quasi sempre qualcosa di corale, sia nella storia che nella stesura, è il risultato di consultazioni su consultazioni, ha una struttura ferrea, un plot e un subplot che devono incastrarsi bene come un muro di mattoni e che, alla fine, formano sempre tre parti di un film dalla lunghezza standard. Un libro invece viene fuori quasi da sé, la struttura si forma naturalmente dal subconscio che, forse a qualcuno sfugge, mormora incessantemente.

 

Qualche volta gli sceneggiatori che devono fare la gavetta mi prendono per “raccomandata”, una che è finita in certi ambienti perché le sono state date le dritte giuste, come se non toccasse anche a me imbattermi in certi loschi figuri di questa industria che in Italia fa vivere ancora oggi intere famiglie, fa girare l’economia, ma che nel Fondo unico per lo spettacolo viene relegata dopo le operette.

 

Forse questi incompresi autori della gavetta non sanno che lavorare nel cinema e come lavorare nel circo, quando si chiudono i battenti se ne vanno tutti a casa.

 

A casa nostra siamo stati tutti felici quando da mio padre hanno chiuso i battenti, almeno potevamo dire di averlo un padre.

 

Mio padre era veramente un personaggio, uno di quelli che i vigili chiamavano “’a dotto’” e a cui erano i vigili stessi a parcheggiare l’auto in seconda fila su via di San Basilio. L’unico a non essere un malavitoso e a rientrare di tanto in tanto con due gorilla in un normale appartamento di periferia.

 

Che vuoi rispondere a un cinematografaro che ti dice con aria di beffa che sei un personaggio? Sicuramente bisogna evitare di sottolineare che è un vizio di famiglia.

 

Mio padre riusciva a comunicare con quei vecchi divi di Hollywood tanto innamorati di Roma anche con il suo inglese stentato; era l’unico a lavorare di sabato, per tutti gli altri era shavhat, ma lui non si fermava mai.

 

Di sabato negli studi di produzione c’eravamo solo noi e Paolo, l’usciere. Passavo il tempo a leggere i copioni che trovavo ammassati negli scatoloni buttati a terra, attiravano ancora più polvere della moquette. Si trovavano accanto agli scatoloni con le foto degli aspiranti attori, centinaia di volti che giacevano l’uno sull’altro, rigorosamente con il loro curriculum vitae spillato sul retro.

 

Credo che nessuno si fosse mai preso la briga, o avesse avuto la pazienza, di leggere quei copioni tranne me. Di solito mi trascinavo una delle scatole per tutto il lungo corridoio fino alla stanza del produttore capo, un americano che veniva solo in occasioni particolari, ma al quale spettava la stanza più spaziosa, meglio arredata e con vista sull’Ambasciata statunitense.

 

Non veniva a disturbarmi nessuno per ore, tranne a metà mattinata, quando Paolo mi portava il tè con i biscotti, l’unica pausa che mi concedevo dalla lettura. Aveva stima di mio padre e per questo aveva una grande simpatia per me.

 

Mi piaceva immaginare in quella enorme stanza di ricevere autori e registi, segnavo con la matita rossa le battute che mi sembravano deboli, giravo su me stessa, seduta su quella sedia di pelle nera dallo schienale alto in cui sprofondavo e da cui ciondolavano le gambe, proprio come avevo visto fare nei film americani.

 

Nei sabati d’estate la pelle nera della poltrona era un vero martirio, indossavo quasi sempre dei calzoncini e il contatto tra la mia pelle e quella della poltrona mi faceva sudare il retro delle cosce, allora mi alzavo per il fastidio, ma anche perché a sei anni quel tipo di lettura richiede un notevole sforzo di concentrazione, impiegavo almeno un giorno per finire una sceneggiatura.

 

Durante le pause girovagavo per gli studi, li ispezionavo da cima a fondo, vuoti e in penombra per non far entrare la calura estiva; una tappa fissa era la stanza del telegrafo, da quell’enorme macchina sempre in movimento, arrivavo dispacci ogni cinque minuti, generalmente in inglese. Alla parate era appesa un grande locandina di Borsellino e poi c’era il frigobar, riempito solo di acqua Evian e champagne.

 

Ero capace di bere due bottiglie di Evian a volta, una dopo l’altra, poi mi alzavo con la pancia che mi sembrava uno stagno animato. Alle pareti dei corridoi erano appese locandine e foto di scena, quelle davanti a cui mi soffermavo ogni volta erano Il conformista e Ritratto di borghesia in nero, di questo film mi affascinava una foto in cui il corpo nudo di Ornella Muti era cinto dal braccio di un uomo coricato al suo fianco a pancia in giù, con l’orologio al polso dell’uomo in primo piano.

 

Poi abbandonavo l’ala della casa di produzione dove si trovavano gli uffici per addentrarmi con un certo timore nell’altra ala, dove si trovavano alcune quinte di set. A guardia, subito dopo l’atrio, una riproduzione dell’Oscar a misura d’uomo, immobile sul suo piedistallo, scintillante, nell’oscurità.

 

Non osavo sorpassarlo, morivo dalla voglia di toccarle quelle quinte, aprire una di quelle porte finte per vedere cosa ci fosse dietro, ma il gigante era lì, lo trovavo ogni sabato, puntuale e immobile, sembrava lo avessero messo apposta per scoraggiare i bambini dall’oltrepassare l’atrio.

 

Allora me ne tornavo indietro, mesta, senza il coraggio di chiedere a mio padre di accompagnarmi di nuovo davanti all’Oscar.

 

Eppure c’era un altro luogo a cui a me veniva negato l’accesso, un’unica porta chiusa a chiave in tutti gli studi; dopo aver tentato varie volte di spingere con forza la maniglia in basso non restava che sbirciare dalla serratura. Ogni volta la macchina da presa era nella stessa posizione, come se durante la settimana nessuno l’avesse spostata.

 

A quei tempi non mi era ancora chiaro che sarebbero passati mesi prima che fosse permesso di nuovo a qualcuno di aprire quella porta.

 

 

 

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